
In questo testo Leone di Giuda si concentra sullanfigura di Zaccheo e il suo contesto interiore simbolico. Gesù ci invita al ritorno per partecipare alla mensa del regno.
Il nome Zaccheo, in ebraico Zakkay, significa "puro", "innocente", "giusto". La radice zakah indica proprio il rendersi limpidi, purificati. Eppure, paradossalmente, questo uomo non era considerato puro dal suo popolo: era un architelones, un capo degli esattori delle tasse al servizio di Roma, quindi visto come collaboratore e peccatore pubblico.
Ed è proprio su di lui che cade lo sguardo di Yeshúa (Gesù).
Il racconto di Luca 19 ci mostra Zaccheo che, piccolo di statura, si arrampica su un sicomoro per poter vedere il Rabbi galileo. Non un gesto banale: arrampicarsi è un atto infantile, eppure dietro a quell’atto c’è una sete di visione.
L’albero richiama l’immagine biblica della ricerca: come l’"albero della vita" e l’"albero della conoscenza" in Genesi, così il sicomoro diventa simbolo di un desiderio umano di elevarsi verso il divino. Ma mentre Zaccheo cerca di vedere da lontano, Yeshúa lo chiama a un passo opposto: scendere.
"Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua." (Lc 19,5)
Qui c’è la svolta. La vera ascesa comincia con la discesa: la Teshuvá (ritorno) non è scalata orgogliosa verso Dio, ma umile ritorno, abbassamento che apre alla rivelazione.
Nella tradizione biblica, "scendere" ha un valore teologico forte: Mosè deve scendere dal Sinai per portare la Toràh al popolo (Es 19,14); Giona scende nelle viscere del pesce per riscoprire la sua missione (Gio 2). Anche Zaccheo deve scendere, non solo dall’albero ma da una posizione interiore: da spettatore curioso a discepolo che accoglie.
Aprendo la sua casa, Zaccheo apre anche la sua vita. Nel pensiero ebraico, ospitare non è un gesto sociale ma spirituale: significa invitare la Shekhinàh, la Presenza divina, a dimorare. Così l’accoglienza di Zaccheo diventa il segno di un cuore rinnovato.
Il racconto mostra che l’incontro con il Messia non resta teoria: Zaccheo si alza e proclama:
"Ecco, SIGNORE (Adón), do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno di qualcosa, gli rendo il quadruplo." (Lc 19,8)
Questo non è solo un gesto generoso: è un atto di giustizia restaurativa. La Toràh (Es 22,1) prescrive la restituzione quadruplicata in caso di furto con dolo; Zaccheo applica questa misura a sé stesso, confessando implicitamente il suo peccato. La sua Teshuvá supera la misura minima, esprimendo sincerità e radicalità.
Yeshúa allora dichiara:
"Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anche lui è figlio di Abramo."
"Poiché il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto."(Lc 19,9–10)
Qui "salvezza" (sōtēria) non è un concetto astratto, ma restaurazione: restituzione dell’identità di figlio di Abramo, riconnessione con la comunità del patto, e redenzione personale.
La figura di Zaccheo diventa parabola vivente di Israele. Come lui guarda da lontano il Messia, così Israele attende la redenzione senza riconoscerla pienamente. La voce del Rabbi di Nazaret chiama: "Scendi, Israele. Oggi voglio dimorare in casa tua."
La Teshuvá di Zaccheo prefigura il ritorno del residuo fedele: non basta ammirare da lontano, occorre aprire la porta e permettere al Messia di entrare.
Ed è così che un uomo disprezzato, collocato ai margini, diventa testimone della giustizia del Regno e segno della promessa "che il Pastore è venuto a cercare e a salvare ciò che era smarrito" (Gv 10,27–28).
Testo tratto dalla comunità messianica Sukkot
Leone di Giuda
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